Qualche tempo fa, saranno cinque giorni o cinque anni (semicit), mia madre dismise una maglia e me la regalò.
Divenne in tempo zero la mia maglia prefe. Nera, semplicissima, morbida.
Che poi è questa: la maglia cattivona del viemme sotto, del ce la regoliamo fuori nel parcheggio, di un piccolo set giocoso scattato tra i vicoli di Trastevere in un lunedì piovoso.
Comunque: il 2020 è il mio anno del bianco. Dopo il periodo afro e il periodo animalier, adesso c’ho questo.
Checcevolete fà: la vecchiezza mi fa romantica.
In questa quarantena, supponevo avrei molto cucito e molto studiato.
Perfetto: siamo a zero su due. Vabbè, c’è stato #StayON che era più importante.
Avevo, però, qualche pezzetto di maglia bielastica preso pre-crisi-covid. E questa t-shirt non aveva praticamente bisogno di essere disegnata.
Tutta messa insieme con il punto conchiglia (non elegante, ok: ma efficace).
Insomma: un’ora dal pensiero all’indossarla. Non perfetta, affatto: ma c’è.
Le foto le ho fatte in camera da letto alle 8.30 del mattino: senza LaMiaMarzia e restando confinata in casa… cavalletto e macchina fotografica con l’autoscatto e via. Special guest: il Borso che mi mandava i messaggi di lavoro.
Stranamente, sto leggendo poco. Sto dormendo meno del solito, quindi nei momenti buchi faccio ginnastica, per non crollare.
Andrò su qualcosa che ho divorato recentemente, quindi, giusto per non lanciarmi in voli pindarici che non saprei reggere.
Call me by your name di Andrè Aciman è un libro che mi ha spaccata in due. E non solo me, considerato il grande successo del film che ne ha tratto Guadagnino.
Un romanzo che non è esattamente un percorso di formazione. Anzi, non lo è affatto: non si parla di imparare ad accettarsi e neanche di capire chi o cosa o come si è fatti. Si parla di prenderne atto, non sempre in maniera indolore.
Non vincono i buoni, in questo libro; non c’è un happy ending; non finisce bene in senso stretto: ci sono le cose per sempre in sospeso, ci sono le ferite su cui si può solo buttare sale finché, ad un certo punto, ci si abitua alla carne esposta.
Perché esistono delle situazioni con cui non si scenderà mai a patti; un lato più morbido, più vulnerabile. Magari, si impara a nasconderlo bene, magari ci si stratifica sopra delle cose, lo si protegge con delle bende. Ma lì resta: l’unica cosa che si può fare è imparare a conviverci.
Quando non sai dove andare, vai in Belgio.
Evora, Evora, tu ne m’aimes plus ou quoi?
Evora, Evora, après tant d’années
Evora, Evora, une de perdue, c’est ça?
Evora, Evora, je te retrouverai, c’est sûr